Secondo Wikipedia la descrizione “consiste nella trasposizione di una parte di mondo in una sua versione linguistica, considerata staticamente e atemporalmente. Nei testi descrittivi sono rappresentati persone, oggetti, ambienti, con un’enfasi dell’elemento sensoriale; la categoria cognitiva maggiormente implicata è quella dello spazio, mentre nei testi narrativi è il tempo”. In realtà, in letteratura, c’è spesso una tale profondità che il lettore riesce a vivere contemporaneamente sia l’esperienza del luogo che la dimensione temporale di tale esperienza percettiva.
La descrizione per un grande scrittore
Secondo il grande scrittore turco Orhan Pamuk la descrizione è questa:
“Dipingere con le parole”, per me significa evocare nella mente del lettore un’immagine molto chiara e nitida mediante le parole. Quando scrivo un libro, parola dopo parola, il primo passo è sempre la composizione di un quadro, un’immagine nella mia mente. Sono consapevole che il mio compito immediato è chiarire e mettere a fuoco tale immagine mentale”. La descrizione, quindi, come atto puramente visivo e riconfigurazione di un modo sensibile per il lettore.
Alcuni luoghi comuni (sbagliati) sulle descrizioni
Le descrizioni rallentano le azioni
Le descrizioni servono solo a dare informazioni al lettore
Una prosa senza descrizioni è più scorrevole
Il compito dello scrittore
Mostrare senza dire, ovvero nascondere sottilmente il contenuto profondo: raccontare una situazione che faccia leva sulle sensazioni del lettore;
Sollecitare la partecipazione emotiva del lettore, non considerandolo un soggetto passivo ma mettendolo in condizione di percepire qualcosa di nuovo su quel dato ambiente o sulla storia.
Un esempio di descrizione “sontuosa”
“Quest’uomo, meglio conosciuto sotto il nome di Tigre della Malesia, che da dieci anni insanguinava le coste del mar malese, poteva avere trentadue o trentaquattro anni. Era alto di statura, ben fatto, con muscoli forti come se fili d’acciaio vi fossero stati intrecciati, dai lineamenti energici, l’anima inaccessibile a ogni paura, agile come una scimmia, feroce come la tigre delle jungla malesi, generoso e coraggioso come il leone dei deserti africani. Aveva una faccia leggermente abbronzata e di una bellezza incomparabile, resa truce da una barba nera, con una fronte ampia, incorniciata da fuligginosi e ricciuti capelli che gli cavedano con pittoresco disordine sulle robuste spalle. Due occhi di una fulgidezza senza pari, che magnetizzavano, attiravano, che ora diventavano melanconici come quelli di una fanciulla, e che ora lampeggiavano e schizzavano come fiamme. Due labbra sottili, particolari agli uomini energici, dalle quali, nei momenti di battaglia, usciva una voce squillante, metallica, che dominava il rombo dei cannoni, e che talvolta si piegavano a un melanconico sorriso, che a poco a poco diventava un sorriso beffardo fino al punto di trovare il sorriso della Tigre della Malesia, quasi assaporasse allora il sangue umano. Da dove mai era uscito questo terribile uomo, che alla testa di duecento tigrotti, non meno intrepidi di lui, aveva saputo in poco volger d’anni farsi una fama sì funesta? Nessuno lo avrebbe potuto dire. I suoi fidi stessi lo ignoravano, come ignoravano pure chi egli fosse.”
Emilio Salgari, «La tigre della Malesia»
Un esempio di descrizione dinamica: cioè dove il punto di vista del lettore si muove attraverso lo spazio narrativo
“Di fronte, sopra i tetti, la piena campagna si stendeva a perdita d’occhio. In basso, sotto di lei, la piazza del paese era vuota, le pietre del marciapiede brillavano, i segnavento delle case stavano immobili; all’angolo della strada, da un piano inferiore partì una sorta di ronzio a modulazioni stridenti. Era Binet che girava la ruota. Essa si era appoggiata contro la cornice della finestra della mansarda e rileggeva la lettera con degli sghignazzamenti di rabbia. Ma più ci si fissava, più le sue idee si confondevano. Lo rivedeva, lo risentiva, lo riabbracciava tutto; e i battiti del cuore, che la colpivano sotto il petto come dei grandi colpi di ariete, acceleravano uno dopo l’altro, a intermittenza irregolare. Essa gettava lo sguardo intorno a sé con il desiderio che la terra crollasse ai suoi piedi. Perché non farla finita? Chi mai la tratteneva? Era libera. E avanzò di un passo, guardò il pavimento dicendosi: – Su! Su! Il raggio luminoso che saliva direttamente dal piano inferiore tirava verso l’abisso il peso del suo corpo. Le sembrava che il suolo, nella piazza, oscillando si alzava lungo le mura, e che il pavimento si inclinasse in fondo, come un veliero che beccheggia. Essa rimaneva sull’orlo, quasi sospesa, attorniata da uno spazio enorme. L’azzurro del cielo invadeva la sua persona, l’aria circolava all’interno della sua testa vuota, non le restava che cedere, che lasciarsi prendere; e il ronzio della ruota non finiva, come una voce furiosa che la chiamava. – Moglie mia! Moglie mia! gridò Charles. Essa si fermò. – Dove sei? Vieni! L’idea che veniva di scampare alla morte rischiò di farla svenire dal terrore; chiuse gli occhi; poi rabbrividì al contatto di una mano sulla sua manica: era Félicité. – Il signore la aspetta, signora; la minestra è in tavola”.
In questa descrizione “dinamica”, tratta da “Madame Bovary” di Gustave Flaubert, assistiamo contemporaneamente a un frequente slittamento del punto di vista dalla protagonista alla realtà esterna, creando per il lettore uno spazio immaginativo molto più complesso e profondo.
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