Questo il ritratto che Natalia Ginzburg dedicò all’amico e collega Cesare Pavese, uno struggente addio pubblicato nel 1963 all’interno della raccolta “Le piccole virtù”.
«Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così. Le sue giornate erano, come quelle degli adolescenti, lunghissime, e piene di tempo: sapeva trovare spazio per studiare e per scrivere, per guadagnarsi la vita e per oziare sulle strade che amava.
Non volle, per molti anni, sottomettersi a un orario d’ufficio, accettare una professione definita; ma quando acconsentì a sedere a un tavolo d’ufficio, divenne un impiegato meticoloso e un lavoratore infaticabile.
Era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito da quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva , la sua, una tristezza come di ragazzo, la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare: sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine, di scatto, agguantava il cappotto e se ne andava.
Aveva un modo avaro e cauto di dare la mano nel salutare, poche dita concesse e ritolte; aveva un modo schivo e parsimonioso di trarre il tabacco dalla borsa e riempirsi la pipa. Se eravamo lontani da lui, non ci scriveva, né rispondeva alle nostre lettere, o rispondeva con poche frasi recise e agghiaccianti; perché, diceva, non sapeva voler bene agli amici quando erano lontani, non voleva soffrire della loro assenza, e subito li inceneriva nel proprio pensiero.
Non ebbe mai una moglie, né dei figli, né una casa sua. Abitava presso una sorella sposata, che gli voleva bene; ma usava in famiglia i suoi soliti modi ruvidi, e si comportava come un ragazzo o come un forestiero.
Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione tortuosa e soffocante.
Aveva, negli ultimi anni, un viso solcato e scavato, devastato da travagliati pensieri: ma conservò fino all’ultimo, nella figura, la gentilezza di un adolescente.
È morto d’estate. La nostra città, d’estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura. Non c’era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d’un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero.
Aveva immaginato la sua morte in una poesia antica, di molti e molti anni prima:
Non sarà necessario lasciare il letto. Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. Basterà la finestra a vestire ogni cosa D’un chiarore tranquillo, quasi una luce. Poserà un’ombra scarna sul volto supino. I ricordi saranno dei grumi d’ombra Appiattati così come vecchia brace Nel camino: Il ricordo sarà la vampa Che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
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