Continua la nostra inchiesta sul mondo editoriale italiano con un’intervista a Emmanuele Pilia di “D” Editore, una indipendente e dinamica casa editrice romana.
Partiamo dalla fine. Qual è il vostro ultimo libro in uscita? In che modo rappresenta la vostra linea editoriale?
A dire il vero, abbiamo due libri in prossima uscita, un saggio (Cronofagia, di Davide Mazzocco) e un libro di racconti (Racconti dal Dakota, di Hamlin Garland), ed entrambi sono un ottimo esempio della nostra filosofia. Cronofagia è un testo molto sperimentale, che spiega come il capitalismo non si accontenti di accumulare ricchezza, ma necessiti del nostro tempo, della nostra attenzione, delle nostre pause. Racconti dal Dakota è invece la seconda raccolta che dedichiamo a Hamlin Garland, un pioniere della letteratura americana che in Italia non ha mai avuto fortuna. Garland affronta temi fino ad allora inediti: la vita agreste del proletariato statunitense, le difficoltà causate dalla povertà, le ingiustizie di uno Stato cieco, l’emancipazione femminile e la lotta di classe. Sono temi per noi scontati, ma dobbiamo considerare che la letteratura americana era fino ad allora dominata da temi eroistici, e l’azione si svolgeva o nelle praterie selvagge o nelle grandi città: Garland sposta l’attenzione sugli eroi del quotidiano, come contadini, piccoli commercianti, giovani donne promesse in spose dai genitori e via dicendo.
Ora, perché dico che entrambi rappresentano la nostra linea editoriale? Il nostro scopo è quello di raccontare il nostro mondo che cambia e muta, ed entrambi sono esempi di questa nostra missione: Cronofagia mostra come il mutamento del mercato influisca sulla nostra vita, Racconti dal Dakota invece racconta la nascita del mondo moderno.
Raccontateci la vostra storia. Come siete diventate editori? E di quali libri siete particolarmente orgogliosi?
Non è facile rispondere in forma sintetica a questa domanda. Letteralmente, ci ha spinto l’amore verso alcuni autori e temi che in Italia non venivano importati con facilità, o venivano affrontati in modo superficiale. Temi come l’urbicidio, la bioetica, e via dicendo. Così, ci siamo detti: be’, proviamoci noi! Così, ormai sette anni fa, fondammo quello che è stato il nostro primo marchio editoriale, ciò che oggi è D Editore.
Il libro che di cui siamo più orgogliosi, sia per volumi di vendita che per motivi ideologici e affettivi, è La fine dell’invecchiamento. Qui c’è un piccolo dettaglio personale da svelare. In quel periodo ero a pezzi: a mio padre fu diagnosticato l’alzheimer, parte del magazzino era stato distrutto da un problema con le tubazioni nell’appartamento dove avevo il deposito e un uragano sventrò parzialmente la casa dove vivevo. Avevo sinceramente voglia di mollare tutto e di fare un lavoro che non mi richiedesse responsabilità di alcun tipo: ero semplicemente stufo. Fortunatamente, quel libro (un libro che tutt’ora considero una sorta di bibbia personale) ebbe un successo incredibile, un successo ancora insuperato nel nostro catalogo, e misi da parte i miei progetti di collocamento.
In che modo descrivereste l’attuale situazione dei piccoli e medi editori. C’è uno scenario che descrive la piccola editoria come la vera artefice della scena letteraria italiana. C’è del vero?
Come spesso accade, la verità è nel mezzo. Sono dell’idea che come apporto culturale diffuso, l’intera schiera di piccoli editori non può rivaleggiare con una sola casa editrice medio-grande: i numeri ci trafiggono. Ma le piccole case editrici possono rischiare, e quindi andare a crearsi delle nicchie che, seppur di piccole dimensioni, possono localmente fare la differenza. Esistono case editrici che affrontano tematiche o prospettive talmente strane da pensare che sia impossibile che il loro progetto sia sostenibile, e invece poi si scopre che esistono comunità di lettori molto vicini a dei temi particolari che altrimenti non avrebbero un aggregatore culturale come quello specifico progetto.
“Il Mestiere di Scrivere” si occupa da 10 anni di scrittura creativa e dei modi per imparare la tecnica di base. Secondo voi si può insegnare il mestiere di scrivere? Le scuole di scrittura dal vostro punto di vista sono una risorsa per gli editori e una opportunità in più per reclutare nuovi autori, oppure rischiano di creare un esercito di “scriventi” non destinati al mondo editoriale?
Come ogni attività creativa, anche la scrittura può essere insegnata. Personalmente sono refrattario all’idea di genio solitario che nella sua torre d’avorio crea capolavori: è un falso storico nato tra il Barocco e il Romanticismo a causa di una narrazione autoriferita degli artisti alle corti nelle quali lavoravano. Allora, l’arte era vista come un’attività sociale: l’artista esponeva a signori e borghesi la propria opera, parlando delle proprie creazioni come alchimie quasi magiche. La verità è un’altra: le botteghe insegnavano il mestiere di creare arte, e poi ogni autore portava un poco avanti quell’arte. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, questo dipende ovviamente da che rapporto c’è tra autore, scuola e casa editrice: un progetto come quello di D Editore, valuta progetti che vanno in una direzione specifica, e così molte altre case editrici. Certo, ci sono piccole case editrici con un’anima più generalista che produce libri di ottima qualità.
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