W. Somerset Maugham: come scrivo i racconti (Prima parte)

Romanziere e commediografo tra i più amati del Novecento, William Somerset Maugham (1874 – 1965), è stato a lungo considerato con sospetto dai critici. Come ha scritto del resto Glenway Wescott, suo grande amico ed estimatore, «se in un racconto o in un romanzo di Maugham cerchi la profondità di pensiero, non aspettarti di trovarla troppo in evidenza. Devi usare la testa per non confondere la semplicità con l’assenza di significato. E, soprattutto, devi imparare a riconoscere in quell’involucro di realtà – un episodio, un dialogo, una breve sequenza di causa ed effetto – dove hanno origine le idee»

«Mi sono messo a scrivere racconti quando, grazie al cielo, avevo già conquistato un’accettabile indipendenza economica, e potevo quindi considerarli una specie di vacanza da lavori troppo lunghi o troppo impegnativi. La maggior parte li ho scritti a gruppi – ricavandoli da appunti sparsi – e in ordine di difficoltà: prima i più facili. Ma che cos’è un racconto difficile? Be’, un racconto che cominci senza sapere bene come andrà a finire, e che porti in fondo ricorrendo, se serve, all’immaginazione e all’esperienza. Non sempre infatti una parabola narrativa è lì, davanti agli occhi: a volte, per trovarla, ci vuole un certo metodo.

Vorrei pregare il lettore di non farsi trarre in inganno. Pur essendo quasi sempre in prima persona, i miei racconti non sono autobiografici. La prima persona è solo un trucco per guadagnare verosimiglianza. Con le sue brave controindicazioni. Ad esempio, il lettore stenta a credere che il narratore non sappia già tutto fin dall’inizio, e quando questi lascia parlare qualcun altro, cioè quando riferisce una storia così come gli è stata raccontata, si ha la sensazione che quel poliziotto, o il capitano di quella nave, abbiano un eloquio un po’ troppo sciolto, e al tempo stesso un po’ troppo elaborato. Insomma, ogni convenzione hai i suoi svantaggi. Che bisogna mascherare il più possibile – e quando mascherarli non si può, tanto vale ammetterli apertamente. Il vantaggio della prima persona è che è diretta. Consente allo scrittore di dire solo quello che sa. E se rinuncia all’onniscienza, chi racconta può tranquillamente ammettere di non capire un certo movente, o un certo fatto, conferendo così alla storia una plausibilità che altrimenti le mancherebbe. Questo atteggiamento, fra l’altro, istituisce un rapporto molto stretto fra chi scrive e chi legge.

Maupassant e Cechov facevano di tutto per sembrare oggettivi, e proprio per questo risultano l’esatto contrario: ripensando a loro, mi sono spesso detto che se un autore non riesce a tenersi fuori da una storia, tanto vale che ci si lasci trascinare dentro. Il rischio è solo che ci creda un po’ troppo, finendo per somigliare a quei logorroici che monopolizzano la conversazione. Come tutte le convenzioni, anche questa va dunque usata con cautela».

 

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