In questo estratto di un’intervista del 1951, Camus ci parla della poetica dell’assurdo, del suo rapporto con la scrittura e con le giovani generazioni che tanta ispirazione avevano tratto dai suoi libri. Questi ed altri testi poco conosciuti sono stati pubblicati in Italia dall’editore Bompiani in un libro dal titolo “L’estate ed altri saggi”.
Come si è rilevato in lei il gusto di scrivere? Ne ricorda la prima comparsa?
È una cosa difficile da dire. Mi ricordo comunque la scossa che mi provocò la lettura di un libro giovanile prestatomi da Jean Grenier: Il dolore, di André de Richaud. È necessario collocare questo piccolo choc nella vita di un uomo molto giovane. A quel tempo, leggevo tutto, perfino Marcel Prevost. Ma Richaud, in Dolore, parlava di cose che conoscevo, ritraeva ambienti poveri, descriveva nostalgie che avevo provato. Capii, leggendo il suo libro, che anch’io avevo forse qualcosa di personale da esprimere.
Molti immaginano lei tormentato d’angoscia. Si vede in lei uno scrittore pessimista. Cosa pensa di questa onerosa reputazione?
Innanzitutto che l’atteggiamento opposto non è chiaramente il mio. L’ottimismo comodo, nel mondo attuale, non ha tutta l’aria di una derisione? Detto questo io non sono tra coloro che assicurano che il mondo corra verso la sua rovina. Non credo alla decadenza definitiva della nostra civiltà. Credo – beninteso senza nutrire su questo nient’altro che illusioni…ragionevoli – sì, credo che una rinascita sia possibile. Se il mondo corresse alla rovina, bisognerebbe ritenerne responsabili le idee apocalittiche. Non mi fanno orrore tutte le pose. Ma quella del poeta maledetto mi lascia insensibile. Quando mi capita di cercare quello che c’è di fondamentale in me, è il gusto della felicità che trovo. Ho un’inclinazione molto viva per gli esseri. Non ho alcun disprezzo per la specie umana. Credo si possa sentirsi fieri di un certo numero di uomini di questo tempo che rispetto e ammiro…al centro della mia opera, c’è un sole invincibile. Mi sembra che tutto questi non dia forma a un pensiero molto triste.
Non triste. Inquieto e grave. Come potrebbe non essere così, sensibile com’è lei al dramma del nostro secolo?
Lo sono molto, infatti, ed è forse questa sensibilità che mi ha portato a scrivere, fino a questo punto, più «nero» di quanto avrei voluto.
Ma anch’essa, presumo, le abbia falso l’attenzione e la fiducia di una gran parte di giovani. Ecco che a sua volta la nuova generazione la considera oggi come uno dei suoi maestri (Questa volta l’autore de “La peste” ride apertamente).
Un maestro, già! Ma io non pretendo di insegnare a nessuno! Chi lo crede è in errore. I problemi che oggi si propongono a i giovani sono gli stessi che si propongono a me, ecco tutto. Ma io sono lontano dall’averli risolti. Non mi riconosco alcun titolo per giocare il ruolo di cui lei parla… Che cercano le giovani generazioni? Certezze. Non ne ho molte da dare. Tutto ciò che posso dire, è che c’è un certo degrado a cui dirò sempre no. Questo, credo che lo sentano. Coloro che fanno affidamento in me, sanno che mai mentirò loro. Quanto a quei giovani che chiedono agli altri di pensare per loro, bisogna rispondere «no» nel modo più netto. È tutto.
In che misura si devono considerare i suoi scritti, sia narrativi sia drammatici, come traduzioni simboliche della filosofia dell’assurdo? Lo si è fatto spesso.
La parola «assurdo» ha avuto un’infausta fortuna, e ammetto che sia arrivata a infastidirmi… Quando analizzavo il sentimento dell’Assurdo nel Mito di Sisifo, ero alla ricerca di un metodo e non di una dottrina. Praticavo il dubbio metodico. Cercavo di fare quella tabula rasa a partire da cui si può cominciare a costruire. Se si presuppone che niente abbia senso, allora bisogna arrivare alla conclusione dell’assurdità del mondo. Ma non ha senso niente? Non ho mai pensato che ci si possa fermare a questa posizione. Già quando scrivevo il Mito, pensavo al saggio sulla rivolta che avrei scritto più tardi, dove avrei tentato, dopo la descrizione dei diversi aspetti del sentimento dell’assurdo, quella dei diversi atteggiamenti dell’Uomo in rivolta (è il titolo del libro che sto terminando). E poi, ci sono nuovi avvenimenti che vengono ad arricchire o correggere il nostro bagaglio d’osservazioni, le incessanti lezioni della vita che si tratta di conciliare con quelle delle esperienze precedenti. È questo che ho cercato di fare… sempre senza avere, s’intende, la pretesa di essere in possesso di alcuna verità.
Da “Rencontre avec Albert Camus”, a cura di André D’Aubarède in Les Nouvelles Littéraires, 10 maggio 1951.
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