Nelle narrazioni una fondamentale scelta formale che incide sul tono e lo stile di tutto un romanzo o un racconto è la ‘linea del tempo’ utilizzata.
Quando leggete un romanzo scritto in tempo passato, si da per implicito il fatto che qualcuno stia guardando indietro a tutto quello che ha vissuto. Inoltre, nella maggior parte dei romanzi, non sapete mai dove quella persona si trovi adesso. Quando un romanzo, invece, è scritto al tempo presente, lo si legge come se lo si vivesse, mentre l’azione si sviluppa davanti agli occhi. Il tempo presente aumenta i problemi tecnici, al contrario del tempo passato. E’ più difficile narrare, anticipare e passare attraverso i periodi di tempo quando si usa il presente.
Il tempo passato ha una autorevolezza morale e intellettuale di cui il tempo presente è carente, poiché implica che un autore o un personaggio stiano guardando indietro ai fatti, interpretandoli e selezionando cosa sia importante da sapere.
Vediamo due esempi di narrazioni scritte al passato e al presente.

“Finché ebbe luce negli occhi, mio padre fece fotografie. Un intero scaffale si riempì di immagini nostre riprese nelle circostanze speciali come nelle comuni. Durò dieci anni, non di più, la raccolta: gli anni del primo benessere e della caduta della sua vista. Resta così documentata fino al dettaglio una sola età, forse l’unica che sono riuscito a dimenticare. Gli album, gli archivi non mi sorreggono la memoria, invece la sostituiscono. Fu quello un tempo di spiazzamenti, tra i miei nove e i diciannove, quando avvennero traslochi in migliori quartieri e la povertà finì d’improvviso insieme con l’infanzia. A casa nuova, la bella, non si parlò più di quell’altra condizione: una strada in discesa, la pioggia in cucina, gli strilli del vicolo. Non parlavamo il napoletano. I genitori si difendevano dalla povertà e dall’ambiente con l’italiano. Erano molto soli e non ricevevano amici, non potendo accoglierli nel minimo spazio. La guerra aveva distrutto i loro beni. Ne uscirono avendo perduto una precedente condizione di agiatezza. Furono sposi da non potere offrire un rinfresco. Questo cruccio l’ho sentito ripetere da loro come il simbolo di molti anni difficili. Poi vennero le trasformazioni che desiderarono e per le quali avevano resistito. A noi bambini, per ordine di apparizione prima io e poi mia sorella, fu impartita un’educazione che a me parve sempre adatta alla scarsezza di mezzi e di spazio: si parlava a bassa voce, si stava in tavola composti, cercando di non sporcare i pochi panni buoni. Ci si muoveva con disciplina nel piccolo alloggio. Ci fu meno attenzione per queste usanze nella casa nuova, ma a me restarono sempre nel cuore come segno di una misura mai più posseduta tra me e la porzione di mondo assegnatomi”.
Erri De Luca, Il contrario di uno

“Mi accade spesso di sognare l’Albergo del Delfino. Dal sogno si direbbe che ne faccio parte in modo stabile. La forma dell’albergo appare distorta. E’ molto lungo e stretto. Tanto lungo e stretto, da sembrare, più che un albergo, un lungo ponte coperto da un tetto. Un ponte che si estende, in tutta la sua lunghezza, dall’antichità alla fine del mondo. Io ne faccio parte. Lì dentro c’è anche qualcuno che piange. E io so che piange per me. L’albergo mi comprende dentro di sé. Riesco a percepire le sue pulsazioni e il suo calore. Nel sogno sono una parte dell’albergo. Mi sveglio. Subito cerco di capire dove mi trovo. Me lo chiedo perfino ad alta voce: – Che razza di posto è questo? – Ma è una domanda superflua. Prima ancora di formularla, so già la risposta. Questo posto è la mia vita. La vita che vivo tutti i giorni, un’appendice della mia esistenza reale. Un insieme di eventi, fatti, circostanze che stento a riconoscere e tuttavia, senza accorgermene, sono diventati un prolungamento del mio essere”.
Murakami Haruki, Dance Dance Dance
Rispondi