Edith Wharton (New York, 24 gennaio 1862 – Saint-Brice-sous-Forêt, 11 agosto 1937) è stata una scrittrice americana che ha descritto con particolare efficacia limiti e conflitti della società del primo Novecento. Amica e confidente di Henry James, è stata la prima donna a vincere un Premio Pulitzer nel 1921 con il romanzo “L’età dell’innocenza” dal quale il regista americano Martin Scorsese ha tratto un celebre film.
Di famiglia benestante, si trasferì in Europa ai primi del Novecento. Testimone colta e raffinata dei ceti alti americani ed europei, mise in evidenza particolari doti di introspezione psicologica e realismo nei sui romanzi, tutti ormai tradotti anche in italiano.
Di particolare interesse i testi “The Writing of Fiction” (1925) e , “A Backward Glance” (1934) che introducono i lettori nella sua vicenda di autrice e nell’universo della narrativa, soffermandosi spesso su molti aspetti ‘tecnici’ della scrittura creativa.

Come suo solito la Wharton sfata alcuni luoghi comuni sulla scrittura e l’arte narrativa come ad esempio quello sul rapporto tra vita e letteratura:
“Tutti i romanzieri che descrivono (o dall’esterno o dall’interno) la cosiddetta ‘vita di società’, sono perseguitati dall’accusa esasperante di mettere nei loro libri delle persone vere. Chiunque sia dotato della minima capacità creativa riconosce l’assurdità di simile accusa. ‘Persone vere’ trasportate in un’opera di immaginazione, cesserebbero immediatamente di essere tali; soltanto quelle nate nella mente del creatore possono dare la minima illusione di realtà.
Ma è inutile convincere coloro che sono privi di immaginazione – che costituiscono la massa dei lettori di romanzi – che introdurre persone vere in un romanzo sarebbe come incollare la loro fotografia all’interno della folla vibrante, umana, di un quadro del Guardi. Se lo si facesse esse sarebbero gli unici oggetti morti e irreali in una scena fremente di vita. La bassa categoria, nella narrativa, del roman à clef autentico (che non è mai scritto da un romanziere nato) fa indignare, naturalmente, ogni serio scrittore di narrativa, sospettato di usare tali metodi.
Niente è più penoso per uno scrittore creativo che l’avere un goffo dito puntato su una delle creature nate in quel misterioso altro-mondo dell’invenzione, con la scherzosa accusa: “Naturalmente, abbiamo tutti riconosciuto tua zia Eliza!”, o di sentirsi dire (e questo è successo a me più di una volta): “Pensavamo tutti che la tua eroina doveva essere la signora X, perché ha i capelli esattamente dello stesso colore” .
“Uno sguardo indietro” (1935)

E infine una brano tratto da “Estate”, romanzo del 1917:
“Mentre ogni altro pensiero si faceva sempre più confuso e irreale fino a ridursi a quell’incerto baluginio che assume il mondo per chi ci vede poco, la presenza del signor Royall prese a stagliarsi su quello sfondo indistinto con la salda robustezza di una roccia. Aveva sempre pensato a lui, come a un essere odioso che le intralciava il cammino, ma che poteva sconfiggere e domare, a suo piacimento. Solo una volta, il giorno della cerimonia, mentre i frammenti sparsi del suo discorso fluttuavano nella sua mente sconvolta, aveva intuito la presenza di un altro essere, un essere assai diverso dal nemico ottuso con cui divideva la sua vita, che, oltre la nebbia infuocata dei suoi sogni, si stagliava innanzi a lei con sorprendente precisione. Allora per un attimo le sue parole e il tono con cui le aveva pronunciate le avevano fatto intuire perché l’avesse sempre giudicato un uomo solitario. Ma ben presto la nebbia del sogno l’aveva nascosto di nuovo, facendole dimenticare quella fuggevole impressione”.
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