“Scrivo per vendetta. Non per giustizia, non per santità, non per gloria: ma per vendetta. Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa. Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce. Quando ricevevano una lettera dal Municipio, dall’esercito, dai carabinieri (nessun altro scriveva ai contadini), si spaventavano e andavano a farsi spiegare la lettera dal prete. Li ho visti passare molte volte, ero un ragazzo. Da allora ho sentito la scrittura come uno «strumento del potere», e ho sempre sognato di passare dall’altra parte, impossessarmi della scrittura, ma per usarla in favore di coloro che non la conoscevano: per realizzare le loro vendette.
[…] Colui che la racconta, non rompe un tabù, ma un contenitore di tabù. Caricata di questi compiti, che forse non può sopportare, la scrittura mi logora. Accettando di logorarmi punisco me stesso: mi punisco delle ingiuste giustizie che compio ogni giorno con ogni riga della mia scrittura. E così il cerchio si chiude: la scrittura è colpa ed espiazione, peccato e assoluzione, vendetta di una colpa, colpa per questa vendetta, espiazione di questa colpa”.
Da “Libération”, numero speciale: Pourquoi écrivez-vous?, 400 écrivains répondent, numero speciale 15 marzo 1985; in volume: edizioni di “Libération”, Parigi 1988, pp. 247-248.
Eccomi, Camon. Sono il duellante della tua vendetta. Ti implorai prima di graziarmi, poi compresi come l’unica via fosse risponderti senza pietà sulle pagine del tuo quotidiano.