Amos Oz: scrivere un romanzo
In fondo, anch’io lavoro più o meno così. Come un orologiaio o un fabbro dei tempi antichi, lavoro: un occhio quasi chiuso, nell’altro conficcata una lente di ingrandimento che sembra una trombetta, in mano delle minuscole pinzette; davanti a me sul tavolo non ci sono schede bensì dei foglietti sui quali mi annoto parole strane, verbi, aggettivi e sostantivi, e anche cumuli di frasi frammentarie, e scampoli di espressioni, cocci di descrizioni e un gran campionario di combinazioni azzardate. Ogni tanto pesco e raccolgo con grande prudenza fra le braccia delle pinzette una di quelle particelle, minuscole molecole di testo, la asciugo, la studio a lungo in controluce, la giro e la rigiro, limo e lustro un poco, pulisco di nuovo e controllo ancora sotto la lampada, limo ancora un filino, poi mi chino e innesto delicatamente la parola o l’espressione al posto giusto, nel tessuto del testo. Mi fermo. Guardo l’effetto di sopra e di lato e con la testa appena piegata, su o giù. Non sono ancora pienamente soddisfatto, estraggo la particella che ho appena incastonato, tento di metterci al suo posto un’altra parola o di inserire dentro un’altra nicchia della stessa frase, tiro fuori e smusso ancora un pochino, per fissare da capo il termine scelto, magari con un’angolatura leggermente diversa? O in contesto lievemente discostante? Magari più in fondo alla frase? O all’inizio della successiva? O non sarebbe meglio suddividere e fare qui una frase a sé, composta di un’unica parola?
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