Non credo che quello che propone Mario Vargas Llosa sia il solo modo di concepire la propria vita contaminata dalla scrittura, ma certamente ci pone di fronte a quella responsabilità che rappresenta la scelta di scrivere, come qualcosa che, se perseguita in maniera totalizzante, possa cambiare il senso profondo della nostra interpretazione delle cose del mondo e della vita.
“La vocazione letteraria non è un passatempo, uno sport, un gioco raffinato che si pratica nei momenti di svago. È una dedizione esclusiva ed escludente, una priorità a cui non si può anteporre nulla, una schiavitù liberamente scelta che rende le proprie vittime (vittime felici) degli schiavi.
La letteratura finisce per diventare una attività permanente , qualcosa che occupa l’esistenza, che travalica le ore dedicate alla scrittura e impregna di sé tutte le altre faccende, perché la vocazione letteraria si nutre della vita dello scrittore, né più né meno di come fa la longilinea tenia con i corpi che invade. Flaubert diceva: «Scrivere è un modo di vivere». In altre parole, chi ha fatto propria questa bella e assorbente vocazione non scrive per vivere, vive per scrivere.
L’idea di paragonare la vocazione dello scrittore alla tenia non è originale. L’ho appena scoperto, leggendo Thomas Wolfe (maestro di Faulkner e autore di due ambiziosi romanzi), che ha descritto la propria vocazione come l’insediarsi di un verme nel suo essere: «Il sonno era perduto per sempre, il pietoso, buio, dolce oblio del sonno dell’infanzia. Il tarlo si era insinuato nel mio cuore e si nutriva del mio cervello, del mio spirito e della mia memoria – avevo capito finalmente che ero stato preso dal mio stesso fuoco, consumato dal mio stesso appetito, afferrato da quel frenetico ed insaziabile desiderio che aveva assorbito per anni la mia vita. Sapevo, in breve, che una cellula luminosa del cervello, della memoria e del cuore avrebbe d’ora in poi brillato per sempre – il tarlo si nutriva e la luce si accendeva di notte, di giorno, in ogni momento di veglia e di sonno della mia vita – non c’era rimedio alcuno di cibo e di bevanda, di amicizie o di viaggi, di sport o di donna che avrebbe potuto spegnerla e che mai più, finché la morte non avrebbe messo il suo sigillo nero e finale alla mia vita, sarei riuscito a fuggire. Seppi infine di essere diventato uno scrittore: seppi infine che cosa accade a un uomo che fa della vita dello scrittore la sua vita.
Credo che soltanto chi entra nella letteratura come si entra nella religione, pronto a dedicare a quella vocazione il proprio tempo, la propria energia, il proprio sforzo, sia in grado di riuscire a diventare davvero uno scrittore e di scrivere un’opera che lo trascenda ».
Da “Cartas a un joven novelista”, 1997.
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